Verità scomode
Da: EPDAPLUS Autunno 2011 - num. 17
Di Leslie Findley
(
www.epda.eu.com)
This article has been provided with the kind permission of the European Parkinson’s Disease Association.
Questo articolo è pubblicato con il cortese permesso dell'EPDA (European Parkinsons's Disease Association).


Il neurologo britannico Leslie Findley osserva con tristezza che le persone con Parkinson di tutta Europa ci stanno rimettendo perché alcuni medici e politici potrebbero non agire nel loro interesse. Ma piuttosto che scoprire l’acqua calda, osserva, dovremmo guardare alla ricerca passata ed applicarla
all’epoca moderna. Di fatto, questo si sarebbe dovuto fare più di 20 anni fa.

Considerare questo fatto frustrante significa soltanto minimizzarlo. Lo abbiamo già visto prima, ci siamo già passati in precedenza e i problemi di cui stiamo parlando sono stati già evidenziati in passato.
Mi riferisco, naturalmente, ai risultati iniziali della prima parte della campagna triennale online dell’EPDA Move for Change la quale chiedeva alle persone con Parkinson (PCP) se venissero effettivamente indirizzate a un medico con uno speciale interesse per il Parkinson, se venisse dedicato loro un tempo di qualità sufficiente per avere una diagnosi accurata e se comprendessero pienamente la portata di tale diagnosi.
Leggere alcuni commenti di PCP da tutta Europa – per esempio, “Il mio medico ha detto che non avevo niente”, “Non mi è stato spiegato nulla!”, “Non mi è stata data nessuna informazione, dopo cinque minuti era già fuori dallo studio del medico” e “Il medico sedeva rivolgendomi la schiena mentre mi spiegava che avevo il Parkinson” – non soltanto mi ha fatto sentire frustrato, ma mi ha costretto a
scrivere questo articolo per denunciare alcune verità scomode, nella speranza che qualcuno, da qualche parte, si renda conto che le cose devono cambiare.
Sono stato fortunato ad aver preso parte a ricerche innovative sul Parkinson nel corso degli anni, molte delle quali esaminavano le esigenze delle PCP al momento della diagnosi e immediatamente dopo. Ed eccoci qui, 30 anni dopo, a cercare di trasporre tutte le nostre esperienze nel Regno Unito nell’arena europea per il bene di tutte le PCP. E tutto ciò che scopro è che stiamo formulando le stesse domande e ricevendo le stesse desolanti risposte in relazione al fatto che le PCP ricevano o meno ciò che meritano: una diagnosi accurata comunicata in modo rispettoso. Molti di questi reclami sono già
ben noti. Pertanto, perché dobbiamo ripetere le stesse cose continuamente?
Dalla lettura del rapporto su Move for Change di EPDA Plus sembrerebbe che, una volta comunicata la diagnosi e iniziato il trattamento, in molti casi in tutta Europa ci sia un grado di soddisfazione generale da parte del medico, ma non necessariamente da parte della PCP. Il momento della diagnosi dovrebbe essere semplicemente l’inizio di un processo educativo della PCP, che comporta il supporto di altre
discipline, preferibilmente nella forma di un team multidisciplinare. La sconfortante verità è che in Europa i servizi relativi al Parkinson sono molto segmentati e che il limitato coinvolgimento di un neurologo è il massimo che la maggior parte dei pazienti riceve.
LA STORIA SI RIPETE?
C’è un precedente per questa sgradevole realtà.
Alla fine degli anni ’70, divenne chiara nel Regno Unito – grazie a uno studio condotto dalla ricercatrice sociale Marie Oxtoby – l’esistenza di ampie esigenze delle PCP assolutamente non soddisfatte. Venne fuori che la maggior parte delle PCP ricevevano la diagnosi, veniva dato loro un qualche nuovo
trattamento a base di levodopa e tutto finiva li! E i pazienti tornavano alle loro vite avvolti nella “oscurità dell’ignoranza”.
Come risultato di ciò venne concepito il progetto triennale Romford Project. Questo studio fu condotto tra il 1986 e il 1988, grazie al finanziamento della Parkinson’s Disease Society (ora Parkinson’s UK) ed è stato svolto dalla Essex Neurosciences Unit di Romford, Essex. Lo studio ha valutato un certo numero
di fattori relativi al Parkinson e ha introdotto un approccio più olistico alla gestione della malattia tra ospedale, comunità e PCP.
La prima parte del Romford Project riguardava il fatto che il medico da solo non fosse sufficiente a gestire il Parkinson.
Pertanto, venne introdotto il concetto di team “neurologico” – oggi largamente costituito come team multidisciplinare – che si componeva originariamente di un terapista occupazionale, un fisioterapista, un logopedista, un dietologo, un assistente sociale e un consigliere.
Lo studio aveva come oggetto 36 PCP recentemente diagnosticate – tutte di stadio 1 di Hoehn e Yahr o pressappoco in quello stadio – la cui valutazione si svolgeva a domicilio.
Questo gruppo veniva confrontato con PCP con una diagnosi simile provenienti da un’altra area
geografica e sottoposte al più convenzionale approccio precedente in relazione alla diagnosi e alla gestione del Parkinson.
Questo tipo di studio non era mai stato tentato prima e ciò che abbiamo scoperto nel corso di tre anni è che se chiedevamo a singoli terapisti di valutare le PCP dall’insorgenza della malattia venivano
riscontrate molte esigenze non soddisfatte.
Le diverse discipline coinvolte nel team neurologico riportavano significative esigenze in precedenza non riconosciute in più di due terzi delle PCP con diagnosi recente e mediamente colpite. Le richieste più frequenti riguardavano consigli sulla malattia e la necessità di maggiori informazioni in una forma comprensibile. Vennero scoperte anche molte altre esigenze non soddisfatte.
In un certo senso, avevamo aperto il vaso di Pandora. Rivelammo che al momento della diagnosi le PCP avevano bisogno di più input di quanto si ritenesse – e scoprimmo che quando questi pazienti ricevevano tali input terapeutici strutturati e controllati stavano meglio rispetto ad altri gruppi di pazienti non altrettanto fortunati nella cura. Purtroppo, questo è esattamente ciò che la campagna Move for Change dell’EPDA sta scoprendo ora in tutta Europa, nonostante il fatto che lo avessimo già dimostrato chiaramente più di 25 anni fa.

UN PROGETTO INNOVATIVO

Dal Romford Project abbiamo imparato qualcos’altro – ovvero l’ impatto della diagnosi. Il punto chiave da considerare è che, dal punto di vista di un medico, la diagnosi di una PCP può essere percepita come una buona diagnosi. Il paziente ha una malattia che può essere diagnosticata clinicamente e può
avere accesso a medicinali che ne influenzano i sintomi. Questa è la situazione che i clinici apprezzano – una malattia con caratteristiche classiche, sulla quale si ha un certo controllo apparente, se non proprio una cura.
Tuttavia, se considerando la diagnosi dal punto di vista di una PCP – ovvero, che cosa questa provava quando le veniva comunicato di avere la malattia – il quadro cambiava completamente. La maggior parte di loro aveva reazioni “da brutte a gravi”. “Che brutta notizia,” dicevano. “È la peggiore notizia che abbia mai ricevuto.” Il Romford Project ci ha fatto comprendere che in molti pazienti la diagnosi del Parkinson produce un grave effetto avverso.
E molto altro sarebbe venuto. La Global Parkinson’s Disease Survey – che ha esaminato le risposte di 1200 PCP di cinque continenti ed è stata condotta dal gruppo di lavoro sul Parkinson dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dal 1998 al 2000 [i risultati dell’indagine sono stati pubblicati nel 2002] – ha confermato quanto appreso con il Romford Project. Lo studio ha rivelato che il modo in cui le PCP vengono trattate al momento della diagnosi da parte del loro medico influenza la loro qualità
di vita futura e la loro capacità di affrontare la malattia da quel momento in poi. In altre parole,
sprecate quel momento durante la diagnosi o fate passare alla PCP una brutta esperienza e potreste non correggere mai questo errore.
Non ci si deve dimenticare di sottolineare sempre che una diagnosi di Parkinson non deve essere mai comunicata sbrigativamente alla fine di una visita. Bisogna prendersi del tempo – almeno 20 minuti o mezz’ora – solo per discutere la diagnosi. E il paziente deve essere congedato con la rassicurazione che entro un lasso ragionevole di tempo, vale a dire nelle settimane seguenti, avrà un altro incontro nel quale potrà approfondire tutte le informazioni appena ricevute e fare tutte le domande che vuole alla presenza di qualsiasi parente, amico, assistente o terapista possa volere al suo fianco.

COME ANDIAMO AVANTI?

Passando all’epoca attuale, credo che il Regno Unito – certamente un leader nel riconoscere le esigenze olistiche delle PCP – abbia fatto decisamente un grande passo avanti nella direzione verso la quale ritengo che dobbiamo dirigerci. Qui si tende molto ad adottare un approccio multidisciplinare nel quale tutte/la maggioranza delle PCP abbiano accesso ad infermieri specializzati i quali, a loro volta, hanno accesso ai servizi comunitari. La formazione di infermieri specializzati è anch’essa molto buona nel Regno Unito, con diversi corsi certificati post-diploma a disposizione. Inoltre, ad alcuni infermieri viene riconosciuto lo status di consulenti e possono prescrivere o modificare i medicinali. Tutte
queste competenze e conoscenze specialistiche – con un rapido accesso al team multidisciplinare
– rappresentano un logico passo avanti.
L’esperienza europea, tuttavia, ci racconta una storia ben diversa. La campagna EPDA Move for Change ha rivelato che, in generale, le PCP non ricevono ancora un servizio di qualità al momento della diagnosi. Come possiamo affrontare questo problema?
La risposta si trova nelle risorse.
I commissari europei devono riconoscere che abbiamo bisogno di strutture che consentano questo approccio multidisciplinare per la gestione del Parkinson (e di altre malattie) in ogni paese europeo. Ritengo che gli enti di volontariato – organizzazioni di pazienti, ONG [organizzazioni non governative], etc. – abbiano un ruolo importante nell’evidenziare l’esigenza di cambiamento in aree nelle quali questo potrebbe essere spazzato via dalla furia di economizzare sulla spesa sanitaria. Sappiamo qual è la via
migliore – tutte le prove che ho descritto ce lo dicono – ma in qualche modo tutto ciò sfugge
all’attenzione accademica, mentre i commissari non sembrano dare peso a queste informazioni.
Ci si lamenta che un team multidisciplinare è troppo costoso; non lo è – se si ha la struttura adatta a disposizione. Il Regno Unito ha cominciato con un team molto vantaggioso in termini di costo, usando terapisti già esistenti, modellato nella forma di un servizio specialistico. Ma si è dimostrato comunque
molto efficace, provando che non tutto dipende dal denao. Naturalmente, non esiste un unico sistema infallibile e ciascuna comunità deve considerare i propri punti di forza e di debolezza e progettare il proprio servizio attorno a quanto esiste già. Non si tratta di dire “fai in questo modo”. È più importante che i principi siano applicati piuttosto che copiare altre strutture. L’Europa deve trovare la sua via, ma devono esserci volontà e consapevolezza.
Credevo che il vento stesse cambiando a favore del paziente, ma poi ho letto con cosa le PCP in Europa devono combattere.
C’è ancora molta strada da fare per arrivare ad un miglioramento. Sono consapevole che alcune delle mie osservazioni possono sembrare scandalose, ma devono esserlo.
C’è ancora un bisogno non soddisfatto ed è un bisogno che deve essere soddisfatto – in modi economicamente fattibili – per poter dare alle PCP una buona qualità di vita.
Lo so, è un compito difficile. Ma il compito è molto più pesante se nessuno presta attenzione a quanto sappiamo già.

Il Prof. Leslie J Findley è consulente neurologo presso il Queen’s Hospital, Essex, Regno Unito, e docente di Scienze della Salute (Neurologia) presso la London University South Bank, Regno Unito.

Una risposta da parte del Presidente dell'EPDA Knut-Johan Onarheim
“Il Prof. Findley propone alcuni eccellenti argomenti che non possono essere contestati. Non c’è alcun dubbio che le ricerche passate sulla qualità abbiano dimostrato come la comunicazione della diagnosi sia fondamentale per il benessere delle persone che convivono con una malattia cronica. È altrettanto vero che questa prova non è stata usata o sostenuta in modo efficiente come si sarebbe dovuto fare in tutta Europa.
“Sappiamo che ci sono molte ragioni per questo – i professionisti sanitari hanno ancora bisogno di una preparazione migliore, i sistemi sanitari devono ancora essere riorganizzati in modo appropriato, il tempo da dedicare alla visita dei paziente è stato notevolmente ridotto. E l’elenco può continuare.
“Ma rimane il fatto che dobbiamo occuparci della situazione che ci troviamo ad affrontare oggi. Il Prof. Findley dice che ‘i commissari non sembrano dare peso alle informazioni’, ma noi dell’EPDA siamo
determinati a cambiare il loro atteggiamento facendo tesoro dei dati del passato e integrandoli con i risultati della campagna Move for Change.
“La voce del paziente è oggi molto più forte di 25 anni fa.
Intendiamo approfittare di questa opportunità per assicurare che il Parkinson diventi una priorità per i legislatori sia a livello nazionale che europeo. Le PCP e le loro famiglie non possono permettersi di
stare ad ascoltare questo dibattito per altri 25 anni.”

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